Donne, nere e poetesse: niente di peggio

Articolo di @febo.e.muse

La Letteratura Africana è subissata dalla triade associata al Continente a cui appartiene: povertà, migrazione e colonialismo. I caucasici d’occidente tacciono le mire espansioniste che raggiunsero il loro apice nel XIX secolo e considerano i recenti fenomeni migratori come invasioni. Pregiudizio che si riflette nella poca conoscenza e mancato interesse per le opere prodotte da autori africani autoctoni: i nomi più noti appartengono infatti a persone dalle origini africane le cui famiglie sono ormai stabilite altrove.

Il dominio della Letteratura Africana include i Paesi situati sotto il deserto sahariano e in alcuni casi gli abitanti del Corno d’Africa; popolazioni con una ricca tradizione orale costituita da storia, leggende, miti, favole e musica: elementi incarnati poi nella letteratura di metà ‘800 politicamente schierata contro i dominatori delle colonie. E’ però con l’indipendenza raggiunta dagli stati africani tra gli anni ’50 e ’60 che la produzione letteraria diviene ancor più particolareggiata: recupero dei caratteri identitari e dialogo con le civiltà fuori dal continente, riflesso della diglossia spesso presente negli autori nativi.

La poesia occupa ancora il ruolo di “ancella” tra le opzioni di lettura e, per quanto molti conoscano i rudimentali fondamenti della poesia italiana, francese e inglese, la poetica che più si avvicina all’Equatore rimane ancora sconosciuta. Il progetto AfroWomenPoetry, ideato dalla giornalista Antonella Sinopoli, ha lo scopo di raccontare l’Africa declinata in differenti Paesi attraverso la voce di donne nere, doppiamente svantaggiate nella lotta all’auto-determinazione: vittime del patriarcato e del razzismo bianco uniti in un sodalizio tenace.

Il portale AfroWomenPoetry permette la conoscenza di poetesse provenienti da Costa d’Avorio, Ghana, Togo e Uganda: ogni categoria autore comprende un video di presentazione e tre componimenti; i versi in inglese o francese sono sempre disponibili in traduzione italiana. Esplorando le poesie è possibile riconoscere lo stile delle diverse autrici, rintracciando al contempo temi comuni a intere generazioni di scrittici donne, oltre confini cronologici e geopolitici: ragionamenti sulla scrittura, lotta per i diritti, soprusi, maternità, opinione politica, denuncia sociale e body-positive.

AUTO-DETERMINAZIONE ATTRAVERSO LA SCRITTURA

Apporre parole sulla carta è come cominciare a esistere, tracciando almeno una parte di ciò che si è o si vorrebbe essere: non definizione di obiettivi ma una ricerca che estendendosi oltre la propria persona è misurata con le aspettative degli altri.

Scrivere porta talvolta ad ammettere che la vita non è clemente: << Inaccessibility accentuates and puff // there flies one’s meagre hope // Frightfully persuasive comes to deprive // Extempore // Humph! Because in writing one that is how one copes. [ L’inaccessibile si accentua // la propria magra speranza vola via // Spaventosamente convincente viene per svuotarci // All’improvviso // Scrivendo // Ѐ così che si resiste. ] >> declama la poetessa ghanese Marcia Kafui Akakutor in L.I.F.E. Componimento in cui la musicalità, che a tratti ricorda l’esposizione di The Hill We Climb di Amanda Gorman, assimila il vivere a un dittatore che inganna e trasporta vorticosamente in direzioni incomprensibili; la soluzione proposta da Akakutor è rispondere allo svuotamento con il creazionismo insito nella scrittura.

Akosua Dufia Boakye, anche lei dal Ghana, intreccia invece il quesito “Who am I?” con una riflessione sul funzionamento del dolore nei 14 versi del componimento Pain: Who Am I?

Pain too has got beauty
The beauty of pain is healing When healing comes
Pain is remembered But Pain is not felt Pain too has got depth
The depth of pain is lesson
When lesson comes Pain is remembered Pain is felt
Pain too has got malice The malice of pain is death When death comes
Pain is not remembered Pain is not felt.

[ Il dolore ha un suo fascino, quello della guarigione.
Quando cominci a guarire ricordi il dolore,
ma non lo senti più.
Il dolore ha un suo spessore, ti insegna sempre qualcosa.
Impari la lezione e il dolore poi lo ricordi, lo senti.
Il dolore poi è cattivo.
La sua cattiveria è la morte.
Quando la morte arriva il dolore lo dimentichi, non lo senti più. ]

Attraverso la personificazione Boakye attribuisce la qualità umana “cattiveria” al dolore che, trattato come nome proprio, presenta l’iniziale maiuscola. La prima metà della poesia racconta il decorso del dolore che lascia insegnamenti: quando è momento di impiegare la lezione imparata, la sofferenza torna tramite ricordo; la morte cancella le sensazioni psico-fisiche negative che quando percepite certificano l’essere in vita.

La sofferenza sta in questi versi come nelle liriche di Emily Dickinson dove le componenti buie dell’esperienza umana sono esse stesse vita e la domanda “Who am I?” trova risposta nell’insegnamento che segue ogni dramma. La poetessa traduce attraverso la scrittura l’antitetica possibilità di descriversi in un punto interrogativo.

MATERNITÀ ESPROPRIATA

Tutte le donne gravide del mondo, o almeno la maggior parte, hanno dovuto subire il maschilismo di cui baluardo è l’espressione “auguri e figli maschi”; eredità patriarcale di società in cui avere una figlia femmina è considerata una sciagura: dote da preparare e perdita del cognome del padre. La Cina risente ancora le conseguenze della “politica del figlio unico”, promossa nel 1979, che indirettamente portava le famiglie a porre fine alla gestazione in caso di feto con cromosomi XX. Anche in Africa è presente questa discriminazione: gli esseri umani si rivelano tutti uguali.

Apiorkor Seyiram Ashong-Abbey racconta di una donna che si prepara per accogliere il marito che la possederà dopo il rientro a casa: << Amina soaps up her breasts, her thighs and her derriere // Amina squats and washes her honey pot // it doesn’t produce much honey these days. >> [ Amina si insapona il seno, le cosce e il sedere // Amina si accuccia e lava il suo vaso di miele // non produce molto miele in questi giorni. ].

La narrazione in versi diviene sempre più sconfortante, quando si apprende che: << Fiifi loves his wife, but she will not conceive // He needs his male child, little Bella is not enough // a man-child will marry her and his name will be lost // But Amina will not get pregnant. >> [ Fiifi ama sua moglie, ma lei non riesce a concepire // Lui ha bisogno di un figlio maschio // la piccola Bella non è abbastanza // un ragazzo la sposerà e il suo nome sarà perduto // Ma Amina non riesce a restare incinta. ]; uomo con un nome che suscita quella tenerezza che egli non concede nemmeno quando << viscous blood-honey that replaced the honey >> [ viscoso sangue-miele ha rimpiazzato il miele ].

Colpisce l’estrema eleganza dei versi mentre la poesia The Honey Pot recitata da Seyiram diviene sempre più disperata, rispecchiando il contegno della donna che prepara il suo corpo mentre l’animo grida. Il vaso di miele, perifrasi per la vagina, è profanato mentre il desiderio di maternità viene espropriato.

Then she trudges on to the room to lay by his side
praying that tonight, at 2.00am
she is already with male child
or at least some baby, who will be the Saviour
to end a Madonna’s mortal misery.

[Poi si trascina verso la stanza per sdraiarsi al suo fianco
pregando di avere già in grembo alle due di quella notte,
un maschio o di essere comunque incinta
incinta del Salvatore che metterebbe fine alla mortale miseria di una Madonna. ]

ELOGIO ALLA DONNA NERA

Solo negli ultimi anni donne nere hanno iniziato ad apparire nelle pagine web di marchi della bellezza, in pubblicità o in forma di bambole per i più piccoli; una mancata rappresentazione che l’Italia non si impegna ancora a colmare del tutto.
Le donne africane hanno e continuano a subire la mistificazione della loro figura, non corrispondente ai canoni imposti dai caucasici; retaggio coloniale di quando venivano stuprate nel buio e disprezzate durante il giorno. La definizione di bellezza ristretta a canoni irrealistici e non inclusivi ha corrotto la mente degli stessi uomini e donne che, sempre con più fatica, riescono ad accettarsi e accettare gli altri.

I couldn’t even moan or scream
in the heat of the moment because
I couldn’t risk my white teeth
glowing in the dark like a ghost and
scaring you off.

[ Non potevo neanche gemere o urlare
nel calore del momento perché
non potevo rischiare che i miei denti bianchi
brinassero nel buio come un fantasma
spaventandoti. ]

Carolyne Afroetry, poetessa ugandese, in Dark Skin Blues richiama attraverso il titolo ritmi nati nelle comunità di schiavi afroamericani degli stati meridionali negli Stati Uniti d’America. Il razzismo sorge tra i versi rivelando comportamenti contraddittori che ancor più minano l’identità delle vittime. Trasportate in vicoli dove le fantasie dei suprematisti bianchi trovano soddisfazione in un essere umano che diviene oggetto per la volta ennesima. La musica è stata però salvezza e ancora una volta la parola diviene strumento per cancellare lo sporco che altri hanno apposto sul corpo delle donne.

The word “beauty” didn’t rhyme
with my essence.
You didn’t propagate the seeds.
We couldn’t go to the zoo
because I was
all the wildlife that you needed
You single-handedly destroyed me
with your negativity and
tried to mix
my dark chocolate
with milk.

[ La parola “bellezza” non rima
con la mia essenza.
Non hai sparso in me i tuoi semi.
Non andavamo allo zoo.
Ero io la natura selvaggia
di cui avevi bisogno.
Da solo, mi hai distrutta
con la tua negatività.
E hai provato a mescolare
la mia cioccolata nera con il latte.]

POLITICAMENTE SCHIERATE

La parola è forza dell’opposizione: volontà di dichiarare i propri pensieri giudicando l’operato di governi e politici che hanno mancato di rispetto al patto con la popolazione. Le poetesse ugandesi Regina Asinde e Susan Kiguli trasformano i versi in uno strumento di denuncia sociale; l’Uganda è stato infatti dilaniato da conflitti interni al ritmo di dittature militari: attraverso il racconto inizia la saldatura.

Asinde conduce in un aula di tribunale onirica dove è lei a occupare il banco degli imputati: ha ucciso il presidente con gli attrezzi della scrittura: << I took my gun // a BIC well-oiled with blue ink // and my dog eared notebook // and boom! // I killed you Mr.President // emptying seven bullets into you. >> [ Ho preso la mia pistola // una BIC ben oliata con inchiostro blu //e il mio taccuino con gli angoli piegati // e boom! // Ti ho ucciso, signor Presidente // ti ho scaricato addosso sette proiettili.].

Il nome del presidente, fino ad ora appellato “Mister”, viene rivelato nei versi immediatamente successivi: il numero scelto di pallottole rima con il cognome; elegante continuazione dell’esercizio poetico tramite figura retorica anche nell’ipotetico assassino attraverso la scrittura. Dettaglio volto a porre accento sul simbolismo spesso insito nella poesia.

<< The first bullet went through your lips // it’s a souvenir for telling us on // the sacred front steps of the // House of Baboons on 26-01-1986 // that the change you brought was fundamental // That’s the fundamental change // We have received these decades. >> [ Il primo proiettile ha attraversato le tue labbra // un regalo per averci raccontato dai sacri scalini della // Casa dei Babbuini, il 26-01-1986 // che il cambiamento che avresti portato era fondamentale. // Questo è il cambiamento fondamentale che abbiamo ricevuto in questi decenni. ].

La condanna delle azioni dell’attuale presidente Yoweri Museveni diviene palese al rammentare un momento drammatico della storia dell’Uganda: il golpe del 1986 in cui il governo di Tito Okello venne rovesciato dall’Esercito di resistenza nazionale; prevaricazione avvenuta tramite promesse non ancora mantenute. Asinde al termine del componimento non può che dichiararsi colpevole e il titolo Treason acquisire così un duplice significato: il tradimento attraverso la parola di una cittadina verso il proprio Paese diviene riflesso della slealtà del governo.

Susan Kiguli in Mothers Sing a Lullaby rinnova invece l’attenzione verso avvenimenti della storia contemporanea troppo recenti per essere ricordati e non invecchiati abbastanza per trovarsi nei programmi scolastici. Il Genocidio del Rwanda del 1994 ha visto il massacro per circa 100 giorni di migliaia di persone, secondo le stime del Human Rights Watch si è giunti a 1.000.000 di vittime. Il conflitto di matrice etnica, che ha coinvolto le popolazioni Tutsi e Hutu, ha origine nel colonialismo occidentale, nessun paese europeo è però intervenuto nella protezione della popolazione indifesa contro armi da fuco e machete.

Mothers sing a lullaby
As the dark descends on trees
Shutting out shadows.
The sensuous voices swish and swirl
Around shrubs and overgrown grass
Hiding mountains of decapitated dead
And the glint of machetes
That slashed shrieking throats.

In these camps without happiness
Mothers maintain the melody of life
Capturing wistful wind
To sing strength into the souls of children
Who have never known
The taste of morning porridge
Or heard the chirrup of crickets in the evenings.

Mothers sing a lullaby
For the staring faces
Who cringe at the sound of footsteps
Whose playmates are grinning skeletons.

Mothers become a lullaby
Silencing the sirens of sorrow
Restoring compassion to the nation.

[ Madri cantano una ninna nanna
non appena il buio discende sugli alberi
lasciando fuori le ombre.
Le voci seducenti s’insinuano e si attorcigliano
attorno agli arbusti e all’erba alta
nascondendo montagne di corpi decapitati
e il luccichio dei machete
che hanno squarciato gole urlanti.

In questi campi privi di felicità
le madri mantengono viva la melodia della vita
catturando il vento malinconico
per infondere forza con il canto
negli animi di bambini che non conoscono
il sapore dei fiocchi d’avena al mattino
e non hanno mai udito il frinire dei grilli alla sera.

Madri cantano una ninna nanna per quei volti sgomenti
che si rannicchiano impauriti al suono dei passi
e i cui compagni di gioco sono scheletri sorridenti.

Le madri diventano esse stesse una ninna nanna
mettendo a tacere le sirene della sofferenza
riportando la compassione nel Paese. ]

La voce di una madre è scrigno in cui celare paure: forza di una ninna nanna che ha il potere di ovattare la brutalità consumata fuori dalle mura di casa; bambini e donne sono ancora vivi perché possono ascoltare il canto della sera. Kiguli rappresenta una maternità assimilabile alle immagini sacre che nella loro luminosità dovrebbero riportare ogni anima alla compassione.

Leggere poesia africana femminile significa scovarne i caratteri universali e riconoscere elementi di eterogeneità che identificano le diverse poetesse. Curiosità e mente aperta permettono di abitare ogni parte di mondo riconoscendo la diversità e promuovendo l’uguaglianza: ogni donna racconta la storia di tutte le altre.

FONTI
https://afrowomenpoetry.net/en/ https://www.thoughtco.com/the-rwandan-genocide-1779931
https://www.limesonline.com/accadde-oggi-26-gennaio-macarthur-ceausescu-patto-tedesco- polacco-siad-barre-gli-anniversari-geopolitici/104312

Articolo scritto da Erica