Donne STEM, un’esperienza

Articolo di @lennesima

L’11 febbraio , in occasione della Giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, ho pubblicato un post sul mio profilo in collaborazione con Save The Children, in cui raccontavo uno dei (purtroppo) numerosi aneddoti che potrei riportare di discriminazione ricevuta in quanto (quasi) medico.

Quel post, scritto di getto e su un fatto assolutamente marginale e circoscritto, ha contribuito a chiarire nella mia testa quanto possa essere concreta quella frase che ho sentito ripetere fino allo sfinimento da ogni attivista, ma di cui non avevo mai colto l’effettivo senso: il personale è politico.

La mia esperienza, assolutamente marginale e circoscritta, è comunque un pezzetto di un puzzle da sette miliardi di pezzi. Il quadro, alla fine, è il mondo in cui viviamo.

Quel post è stato uno dei più visti sul mio profilo e ha ricevuto più di cinquecento salvataggi. Cinquecento persone che grazie a quell’incastro hanno forse messo meglio a fuoco l’immagine generale. E per andare avanti con questa metafora, più vado aggiungendo pezzi, più mi rendo conto che quello che sta uscendo fuori somiglia sempre meno al disegno sulla scatola che mi è stata venduta. Il mondo non somiglia affatto a quello che mi è stato raccontato.

Tutto questo preambolo per dire fondamentalmente una cosa: non si può affrontare il tema delle donne STEM (che è l’acronimo di “Science, Technology, Engineering and Mathematics“, per chi fosse poco familiare con il termine) senza analizzare quelle che secondo me sono le due facce della medaglia.

1) CI SONO POCHE DONNE STEM

Se siete abituat* a informarvi online, avrete sicuramente sentito un milione di discussioni a riguardo, ed è senza dubbio un problema gigantesco. Le donne rappresentano il 55% de* iscritt* all’università, ma analizzando esclusivamente le facoltà scientifiche tale percentuale scende magicamente al 37% (fonte: report 2020 stilato da Talents Venture e STEAMiamoci).

La ragione dietro questo divario, come tutto ciò che riguarda la discriminazione di genere, è più che altro un groviglio di problemi sociali, bias cognitivi e deficit educativi.  I dati oggettivi ci dicono incontrovertibilmente che non esista giustificazione (al di fuori del sessismo, ovviamente) al divario salariale  (1510€ per gli uomini, 1428€ per le donne) persistente nonostante i risultati accademici delle donne siano mediamente superiori rispetto a quelli degli uomini.

Ci sono però altri fattori, meno misurabili, legati a quello che in Invisibili (il saggio di Caroline Criado Perez di cui vi ho parlato nel mio ultimo articolo scritto per Little Readers) veniva chiamato “pregiudizio di genialità”: la totale assenza, nella narrazione accademica, delle scienziate della storia non fa altro che consolidare nelle nostre menti che un vero scienziato debba necessariamente essere un uomo.

Per verificare quanto detto, come sempre, piccolo esperimento: elencate mentalmente dieci scienziati maschi (per me è stato persino difficile restringere il campo: intendiamo scienziati antichi tipo Galileo e Leonardo Da Vinci o ci vogliamo concentrare sui moderni come Marconi e Fermi?). Trovati? Benissimo, ora proviamo a fare lo stesso con le donne.

Probabilmente abbiamo appena riesumato Rita Levi Montalcini e Marie Curie. Le persone più preparate forse si sono ricordate anche di Rosalind Franklin. E poi? Ecco.

2) E DOVE CE NE SONO MOLTE?

La prossima settimana mi laureerò in Medicina con una tesi in Chirurgia Generale e il novanta per cento delle volte in cui mi sono ritrovata a comunicare questa cosa a qualcun*, la risposta è sempre stata “beh, certo , dev’essere tosta farsi spazio in un mondo di maschi”, declinato in molti modi diversi. Ma siamo davvero sicur* che sia così?

Le donne costituiscono il 56% delle iscrizioni alla facoltà di Medicina e Chirurgia e, anche in quest’ambito, si laureano mediamente prima (26,5 anni di età) e con voti migliori (107/110 come punteggio medio). La mia personalissima esperienza mi porta a pensare che tali dati siano anche leggermente sottostimati, persino nel “maschilissimo” mondo dei chirurghi: nel reparto di chirurgia in cui sono stata interna per anni, il numero di specializzande donne supera di gran lunga il numero dei loro colleghi uomini.

Se questa sembra un’isola felice all’interno del mare del patriarcato, per rendersi conto di dove si trovi la magagna basta fare un piccolo sforzo e salire un gradino.

Scavalchiamo gli specializzandi e saliamo nella gerarchia ospedaliera. Tonf. L’avete sentito? È il rumore della nostra testa che ha sbattuto contro qualcosa. Un po’ di ghiaccio sul bernoccolo e lo sguardo verso l’alto: abbiamo appena scoperto il soffitto di cristallo.

Il glass ceiling (o, appunto, soffitto di cristallo), è il termine utilizzato per indicare una situazione in cui l’avanzamento di carriera di qualcun* viene impedito per discriminazioni e barriere di prevalente origine razziale o sessuale.

In ambito ospedaliero, ad esempio, solo il 9% dei direttori generali di strutture sanitarie sono donne (e aggiungerei anche che il 30% delle donne che svolgono un ruolo di rilievo è single o separata, a fronte del 10% del corrispettivo maschile, ma servirebbe un intero articolo solo su questo tema probabilmente).

Lo vedete come il puzzle comincia a somigliare a uno di quei meme che hanno smesso di fare ridere nel 2015 del tipo “quando lo ordini su internet vs quando ti arriva a casa”?.

L’immagine comincia a prendere la forma dei pazienti che chiamano me signorina e il mio collega (magari del primo anno) dottore, degli strutturati che fanno battute su quanto sia diventato bello lavorare in ospedale ora che si è riempito di ragazze e dei professori che mi correggono ogni volta in cui mi viene chiesto cosa voglio fare da grande.

Che vi piaccia o meno, che vi suoni bene o meno, è proprio questo che farò: la chirurga.

E voi lettori, vi siete mai trovati in una situazione simile? Qual è il vostro pensiero a riguardo?

Articolo di Alice